Il diario del viaggio della nostra vita è annotato sul nostro DNA.
Questo è parte della nostra cultura di fondo e si trasmette nella genetica di generazione in generazione. E’ il contesto in cui nasce il Rooting, forza irrefrenabile alla ricerca delle proprie radici.
Quando questo viaggio verso la propria identità non coinvolge solo il singolo ma una collettività alla ricerca delle proprie origini, questa indagine si trasforma in qualcosa di più approfondito, un viaggio reale di cui a beneficiare sono anche i paesi ospitanti. Un viaggio genealogico che offre benefici non solo psicologici, ma anche storici, culturali ed economici.
QA Turismo Cultura & Arte ha incontrato Letizia Sinisi, massima esperta di turismo delle radici ed autrice del libro “Turismo delle Radici un’opportunità per ripartire con il Rooting Experience Planning®”.
Quando nasce il suo interesse per la ricerca delle radici e che cos’è il Rooting?
Rooting in natura significa letteralmente “radicamento”, forza propulsiva che riprende a moltiplicarsi e ad assecondare la forza vitale nonostante interruzioni e traumi, noi “siamo radici”. Sin da quando avevo 7 anni mi sono interessata alla storia della mia famiglia, cercando i miei parenti negli USA. Ero a conoscenza di un fratello di mia nonna partito nel 1920, Gaetano, mai più tornato, che aveva una ricca corrispondenza con sua sorella. Sono riuscita a mettermi in contatto con uno dei suoi figli e nel 1991 ho realizzato un video in cui presentavo la famiglia italiana e il mio paese di origine in Puglia ai parenti americani. Negli anni successivi sono stati tra i tanti italo discendenti che ho aiutato a tornare per conoscere dal vivo il loro paese d’origine compiendo di fatto il viaggio di ritorno alle proprie radici, una forma di turismo già diffuso in Irlanda e in Scozia dagli anni ’80.
Chi fa il “viaggio del ritorno” e come è strutturato?
Non ci sono dei target prestabiliti e, in base agli obiettivi che ci si prefigge, esistono livelli diversi di Rooting e di spinta alla ricerca. Un primo livello è rappresentato dalla semplice ricerca genealogica, quindi un’esperienza tesa a riscoprire la storia della propria famiglia. Il Memory Rooting è un viaggio di gruppo di ritorno in una o più regioni, durante il quale si svolge il Memory Day, una rievocazione condivisa dei tempi dell’immigrazione, a seconda della storia del luogo in cui ci si dirige. Un terzo livello, più approfondito, è il Family Rooting (matrimonio con la propria terra), una particolare condivisione e immedesimazione con l’identità antropologica tra se stessi e la terra ospitante. Di recente abbiamo realizzato il Grand Memory Rooting Tour, il Grand Tour delle Radici in cinque regioni italiane che hanno dato il bentornato a un discendente delle famiglie Caracciolo e Piromallo.
Quali sono gli aspetti costruttivi del Rooting in epoca post-pandemica?
Il Rooting è di per sé un processo trasformativo e rigenerante perché si compone di passato, presente e futuro. I ricordi e i racconti dei nostri nonni fanno sì che si crei un immaginario, che va verificato nel presente, il momento della verità. Quel momento non è solo un viaggio di piacere, ma anche un percorso alla ricerca di sé, con interrogativi sul proprio passato, le cui risposte vanno a riempire buchi nella memoria e nei ricordi, vanno a dare pienezza a quel vuoto che, altrimenti, continuerebbe a tramandarsi di generazione in generazione. Il viaggio, quindi, non è una vacanza ma una pienezza, trasforma la persona, è costruttivo perché può guarire e creare un nuovo futuro. Se io resto con la mia immaginazione resto statico. Se invece faccio quel viaggio, colmo i vuoti e alimento la mia identità. Il Rooting è uno scambio, ricco, memorabile.
Dottoressa Sinisi, lei ha scritto recentemente un vero e proprio manuale sul turismo delle radici descrivendolo come opportunità per ripartire. Dove nasce l’idea di questo libro?
Il libro è stato elaborato nel periodo del lockdown e raccoglie un’esperienza ultra decennale nel campo del turismo delle radici. Sono partita dalle mie radici cercando di riportare quanti più italo-discendenti in Italia. Ho vissuto in prima persona la diaspora in famiglia, comprendendo perfettamente cosa abbia significato l’emigrazione, la povertà e tutte le conseguenze seguite a questo distacco dalla famiglia e dalla terra di origine. Ho quindi assecondato una missione che sentivo dentro di me, quella cioè di costruire ponti per gli italo discendenti, rendendo accessibile questo ritorno anche per chi non ha le possibilità per farlo. Dispongo di diverso materiale foto-video girato negli anni con viaggiatori reali e non attori, storie vere e non simulate come ho avuto modo di vedere in taluni video promozionali. Tutto questo è stato possibile finora grazie alla partecipazione dei territori e alla mia lunga esperienza aziendale in ruoli dirigenziali in multinazionali americane che ha giocato un ruolo determinante nella realizzazione del progetto dal basso. Tra volti noti come l’ex sindaco di New York Bill De Blasio, l’attore John Turturro, Leon Panetta e tanti altri italo discendenti meno conosciuti, negli anni è stato collaudato un vero e proprio modello di successo che auspico venga preso in considerazione dagli amministratori attualmente impegnati a livello nazionale su questo tema, che tendono a non considerare le best practice esistenti e quanto già fatto negli anni precedenti al loro operare.
Come si è svolto il suo lavoro?
Il libro è il frutto di una lunga esperienza e di molti anni di studio. Ricordo che quando parlavo di questo turismo delle radici in Italia tutti mi guardavano con grande perplessità, compresi gli operatori turistici, che non riuscivano a comprendere come fosse possibile far tornare in Italia i discendenti di quegli italiani che tanti anni prima erano partiti con le valigie di cartone. Non capivano come si potesse incentivare in loro il desiderio di tornare a casa. Ho portato avanti contemporaneamente uno studio sui territori per sviluppare una tipologia di accoglienza idonea per questi nostri figli che ritornano, un’accoglienza però non soltanto turistica; non a caso non utilizzo mai in questo ambito il termine turisti ma quello più appropriato di ‘rootisti’, ovvero destinatari di un ‘turismo da rootismo’ fondato su uno stile di viaggio che si chiama Rooting.
I risultati ci sono stati?
Da noi questo tipo di turismo inizia finalmente ad affermarsi. Nel 2018 è stato istituito dal Ministero degli Esteri un tavolo su questo tema, ma ciò che intendo fare con questo libro e con la nostra attività, è far comprendere agli operatori turistici che non stiamo parlando di un turismo come tutti gli altri, ma di uno impregnato di memoria e di storia; una storia legata al grande fenomeno delle emigrazioni che fa parte del nostro Paese. Le emigrazioni però hanno storie diverse. C’è quella australiana che ha una sua caratteristica, quella nord-americana che ne ha un’altra, quella sud-americana che ne ha un’altra ancora; emigrazioni intrise di valori e di storia che gli emigrati italiani acquisivano nel Paese in cui arrivavano.
Che tipo di metodologia ha seguito?
La mia storia familiare l’ho ricostruita grazie alle lettere e ad anni di corrispondenza. Mi sono resa conto di come il mio prozio emigrato avesse portato con sé tutti i valori della sua terra. Mi sono posta quindi un problema: se un emigrato dovesse tornare in Italia, come può riconoscere i valori che ha lasciato nell’odierno presente? Ho capito una cosa: l’accoglienza di queste persone non può essere demandata ai soli operatori turistici, perché il turismo delle radici è soprattutto un viaggio esperienziale. Il Rooting infatti non è soltanto un viaggio nella nostalgia e nei ricordi ma deve servire a far maturare la consapevolezza per gli italo discendenti di possedere DNA italiano. Il ritorno di chi arriva per la prima volta nella terra di origine, deve essere appagante e rappresentare una sorta di momento della verità rispetto ad un’immaginazione che ha colmato il vuoto del distacco. Questo momento della verità deve dunque essere vero, altrimenti rischia di diventare un boomerang, di non riempire quel vuoto nella giusta maniera. Per questo sono andata nei territori e ho riunito intorno ad un tavolo attori pubblici e privati con una proposta integrata. Ho incontrato comunità fantastiche e amministratori lungimiranti, interi territori impegnati, insieme, nell’esprimere il meglio. L’accoglienza deve farla la comunità nel suo insieme, non soltanto la guida turistica, il ristoratore o l’albergatore. Il rootista diventa un ospite di valore e chi lo accoglie deve essere a sua volta sensibilizzato e formato, vanno create delle vere e proprie squadre di accoglienza o laboratori creativi territoriali, come li ho definiti nel mio libro. E’ stato avviato di recente un vero e proprio laboratorio di formazione sul tema, un laboratorio internazionale del Rooting (LIR) dove sono presenti anche ambasciatori di tutti i continenti ed esperti della materia, affinché si possa diventare un ponte fra turismo classico e turismo delle radici. I vantaggi non sarebbero soltanto economici e culturali ma soprattutto umani. Le radici sono sempre plurali e siamo una grande squadra.
Lei parla spesso non solo di radici legate alla memoria dei discendenti ma anche di radici culturali italiche. Ci spieghi meglio cosa intende.
Il turismo delle radici non riguarda soltanto i discendenti, ovvero chi ha DNA italiano, ma anche tutti coloro che attratti dall’italicità ne vogliono conoscere le radici culturali. E’ sempre e solo una questione di identità e di senso di appartenenza, di condivisioni valoriali. Ciò che ho notato avere in comune tra chi è alla ricerca delle radici personali e familiari e coloro che vedono nella realtà italiana una dimensione culturale e umana, che spesso riconoscono come propria, è una sorta di ancestrale senso di appartenenza.
Pertanto, il Paese Italia è percepito come luogo che riesce in qualche modo ad esprimere dimensioni che non appartengono solo agli italiani, bensì sono patrimonio largamente comune.
Il contatto “dal vivo” con l’Italia è sempre terapia, cura dell’anima, e questo è un bene sia per chi accoglie che per chi arriva.
Maggiore è lo spirito di appartenenza anche di chi accoglie, migliore sarà la percezione e la fiducia trasmessa agli altri. Tanto più è forte la fiducia degli altri, tanto più si rafforza l’identificarsi con quella terra e quindi il rimanere ad essa fedele. Come un flusso costante, continuo.
Sono iscritta all’Associazione Svegliamoci Italici e con l’”italicità” ci troviamo, quindi, di fronte ad una forma di “appartenenza” che non implica la rinuncia alle identità nazionali di ciascuno, bensì le amplia e potenzia per trascenderle in una sorta di seconda comunità di appartenenza più ricca ed allargata. Stiamo in presenza di una “pluri-identità” e questo conferma lo stretto legame tra il “pensiero bassettiano” con il concetto di “Turismo delle Radici”.
Radici, in questo caso, da interpretare in modo più ampio rispetto al “recupero della memoria” rivolto ad un “turismo di ritorno” bensì una declinazione volta a sviluppare il concetto di Radici come viaggio alla scoperta di una cultura condivisa e al recupero di valori comuni a prescindere da uguali origini di nazionalità.
In termini di opportunità, una visione del mercato turistico collegata ad un “turismo delle Radici culturali” apre spazi ed esigenze nuovi sia sul lato della domanda che sul lato dell’offerta, rappresentando un vero e proprio “humus” in cui promuovere le esperienze del ritorno attraverso un modello turistico dall’approccio innovativo e culturalmente diverso in termini comunicativi per i 250 milioni di italici sparsi nel mondo come nuovo mercato privilegiato.
Ad oggi, com’ è possibile formarsi o avvicinarsi a questo tema?
Ovviamente i primi a formarsi sono gli operatori turistici che non hanno solo la responsabilità di offrire un servizio, ma anche quella di trasmettere al meglio una storia. Per quanto riguarda la formazione coordino personalmente il piano formativo di ItalyRooting Lab, laboratorio nazionale e internazionale professionale di Turismo delle Radici, in cui creiamo la figura del Rooting Planner e formiamo sulla metodologia del Rooting Experience Planning®, ben dettagliata nel libro, che consente di trasformare l’approccio tradizionale all’offerta turistica italiana e di innovarla radicalmente partendo dal concept stesso di Radice. Due anni fa è stato anche avviato il Master di I livello organizzato dall’UNICAL (Università della Calabria), diretto dal Prof. Tullio Romita, in “Organizzazione e gestione del turismo delle radici” e per la formazione sulle radici culturali italiche ci sono i piani formativi di Schola Italica.
Cosa ha scoperto di interessante in questi anni di lavoro?
Ho scoperto che il mondo degli emigrati italiani non è affatto univoco, ma presenta delle differenze sostanziali. Ci sono emigrati di Boston o di Washington che sono molto diversi da quelli che stanno a New York o a Brooklyn. Pensi che a Brooklyn ci sono italo discendenti che parlano ancora molto bene il dialetto delle origini, mentre a Boston o Washington, per meglio integrarsi e avere successo, molti hanno preferito dimenticare la loro lingua. Il Rooting comunque fa sempre rifiorire la vita, ed ecco che molte delle nuove generazioni scoprono il desiderio di ritrovare le proprie radici pur non conoscendo una parola di italiano. Ho capito soprattutto che ogni generazione di discendenti ha vissuto l’emigrazione in maniera diversa, quindi ognuna va studiata e accolta in base alle proprie peculiarità e non con una visione unanime. Gli emigrati non sono tutti uguali. Esiste un abisso enorme fra un emigrato australiano e uno sud-americano, si tratta di due mondi completamente opposti.
Lei ha parlato di una missione. Davvero la percepisce come tale?
Assolutamente sì, e mi appello agli operatori della comunicazione affinché non sottovalutino la qualità che questo tipo di turismo richiede. Infatti, sulla base dell’esperienza pluriennale ho definito e approntato un vero e proprio Framework, una specifica certificazione di qualità per tutta la filiera turistica che intenda saper accogliere adeguatamente i turisti delle radici. Si tratta di una qualità non legata unicamente al servizio, ma di una qualità soprattutto umana che passi dalla conoscenza di un processo legato a fatti storici.
Sin dal primo flusso migratorio, si andava via perché mancava il pane, i fili che legavano le comunità sono stati spezzati e quelle comunità hanno smesso di esistere dentro l’anima delle persone, il che facilita tutt’oggi l’abbandono di tante zone interne. Si torna ancora poco perché non si sa di non sapere di avere dentro un vuoto che va riempito per un futuro migliore. Con l’epigenetica si è scoperto che i fatti culturali entrano nella linea genetica. Pertanto, il dolore di quelli che sono andati via è nel DNA dei loro nipoti che non sanno di averlo. Da tutto questo si evince una grande responsabilità che va ben oltre un progetto nazionale di incremento di flussi turistici in entrata, qui si tratta di creare “senso” (sense-making) per il futuro.
Con il PNRR stanno arrivando fondi per il turismo delle radici, ma il rischio che si corre è quello di gestire un progetto fine a se stesso che non colga l’opportunità di un approccio turistico innovativo e di lunga durata e che non investa in modo mirato nel recupero dell’anima delle nostre comunità borghigiane che sole potranno dare un senso al ritorno. Sarà fondamentale, pertanto, sviluppare le giuste competenze e consultare chi le dinamiche di questo turismo le conosce davvero e non solo attraverso sondaggi e ricerche accademiche finanziate.