Chi sia Niccolò d’Aquino, professionalmente parlando, è facile a sapersi: giornalista per passione, ha fatto parte per innumerevoli anni dell’Agenzia ANSA, curando le notizie provenienti dall’Estero; oggi, collabora con le principali testate italiane negli USA: Voce di New York e America Oggi. Incontra Piero Bassetti all’inizio degli anni Novanta, durante un convegno: da qui l’innamoramento con le sue idee lungimiranti e con quello che, in seguito, sarebbe diventato il progetto per un Commonwealth italico.
Quando ha incontrato Piero Bassetti e perché ha deciso di abbracciare e nutrire le sue idee rispetto all’italicità e alla sua evidente diffusione?
Ho incontrato Bassetti durante un convegno a Roma, un convegno in cui mai mi sarei aspettato di vedere quello che ho visto: mi trovai di fronte a una platea di operatori di origini italiane, ma con passaporto straniero, che comunicavano tra loro utilizzando l’italiano – con gli accenti e le cadenze più disparate! – proprio come l’inglese standard viene impiegato a livello internazionale durante questo tipo di incontri. A distanza di anni non so spiegarle esattamente il perché, ma quella assoluta novità toccò in me, quel giorno, una corda particolare.
Come avete affrontato, inizialmente, il problema delle comunicazioni con gli italici sparsi per il mondo? All’inizio degli anni Novanta, immagino, la questione del potersi parlare in tempi ragionevoli era assolutamente prioritaria. Ancora di più, però, sarei curiosa di sapere come avete affrontato il problema della comunicazione internamente, qui in Italia: in che modo avete raccontato l’idea di Bassetti?
All’epoca, quando Bassetti ebbe l’intuizione di unire le varie Camere di Commercio Italiane sparse per il mondo sotto un’unica insegna (la CCIE, che sta per Camere di Commercio Italiane all’Estero) le comunicazioni non erano veloci come lo sono adesso, internet stava timidamente cominciando ad emergere. Per questo, stimammo che il Commonwealth italicolo avrebbero visto forse i nostri nipoti, se non addirittura i bisnipoti. Quello che ci premeva maggiormente, però, almeno in quella che non sapevamo essere la fase iniziale del viaggio che ancora oggi stiamo compiendo, era anzitutto portare alla luce la questione italica proprio nel suo luogo d’origine, l’Italia. Nel 1994 uscimmo con una prima ricerca sul tema, volta a dimostrare che la comunità italica all’estero era già largamente diffusa. La ricerca riguardava la schedatura di tutti quei media che, da decenni, parlavano agli italiani all’estero (I media della diaspora. Giornali, radio e televisioni dell’Italia fuori d’Italia, 1994) ed ebbe un successo che non avremmo mai immaginato: scoprimmo, infatti, che esistevano 400 testatedi italianità, numero che in seguito salì addirittura a 700. Insomma, fu subito chiaro che, a quel punto, la nostra battaglianon poteva più essere ignorata e che la questione italica, per quanto ancora non tutti fossero in grado di comprenderla, esisteva davvero…
Mi collego a quanto ha affermato circa i tempi di nascita e realizzazione di un Commonwealth italico a tutti gli effetti: non pensa che questi, con l’avanzare velocissimo delle tecnologie, si siano ristretti? Le porto un esempio: i giovani della mia generazione hanno molto a cuore la propria origine italiana/italica e portano l’italicità sui social a colpi di ricette, bellezze paesaggistiche e arte; si sentono, però, allo stesso tempo, cittadini della comunità europea e, in modo molto più ambizioso, del mondo intero.
Certamente! Vedendo dove le tecnologie della comunicazione sono arrivate e dove, facendo una breve previsione, arriveranno, probabilmente possiamo davvero pensare che la realizzazione del Commonwealth italicoavrà dei tempi molto meno lunghi di quelli che avevamo stimato inizialmente. È bello che, in modo del tutto slegato da qualsiasi condizionamento, i giovani si occupino di “promuovere” la questione italica: considerando la rapidità con cui i contenuti viaggiano su internet e in particolar modo sui social, vedo questa come una grande opportunità, per tutti coloro che ancora non ne sono consapevoli, di capire che alcuni dei loro atteggiamenti, alcuni dei loro modi di vivere, sono di matrice italica. Il Commonwealth italico, paradossalmente, parte proprio da tutti coloro che italiani (nati sul suolo italiano) non sono: questo perché, probabilmente, noi, nati e cresciuti in Italia, diamo del tutto per scontata la bellezza che abbiamo intorno e non pensiamo che questa, un giorno nemmeno troppo lontano, potrebbe sparire o essere seriamente compromessa. Non ragioniamo nell’ottica di preservare, di conservare, di dare un futuro a certe nostre realtà. Come sempre – e la storia dell’Impero Romano ce lo insegna bene – i principali amanti dell’Italia… sono i non italiani!
Parliamo della potenza dell’immagine: fino ad oggi abbiamo raccontato gli italici solamente usando le parole. Una mostra fotografica o un documentario sulle comunità italiche presenti nel mondo sarebbero delle valide alternative comunicative?
Assolutamente sì! È ormai chiaro a tutti che le immagini sono uno strumento molto potente, perché danno una forma a quello che viene raccontato con le parole. Le immagini avvicinano, aiutano a entrare in empatia, a far capire che la realtà di cui si sta parlando non è così lontana come si potrebbe pensare. Chi lo sa: magari aiuterebbero molti italici ad unirsi, ad avvicinarsi, a comprendere che non sono così distanti tra di loro, anche se in mezzo ci sono oceani e continenti. L’immagine, probabilmente, è quell’elemento che ci porterebbe a dire, più di tutti i discorsi fatti finora, “Ecco! Gli italici sono una realtà davvero esistente!”.
Per chiudere la nostra breve chiacchierata, le faccio due domande secche. Partiamo dalla prima: qual è l’identikit dell’italico nel 2022?
L’italico, nel 2022, è quello che ancora non sa di esserlo: è l’appassionato di atletica che si infiamma per la vittoria di Marcel Jacobs e per le imprendibili schiacciate di Paola Engonu, entrambi nati da genitori stranieri, ma italiani a tutti gli effetti; è quello che apprezza tutte le declinazioni che gli americani sono riusciti a dare al cappuccino; sono le seconde generazioni dei figli degli immigrati dai più disparati paesi del mondo, quelli che in casa parlano la loro lingua di origine e mangiano le pietanze caratteristiche del loro Paese e che poi, alle 18 e mezza, vanno a fare aperitivo con gli amici e parlano in milanese stretto. Abbiamo stimato che gli italici in tutto il mondo formano una comunità di circa 300 milioni di persone. Beh, ragionandoci un po’ su, in effetti, mi sembra che potenzialmente potrebbero essere molti di più. Quello che conta è sempre tenere a mente qual è la propria storia: senza non si ha un’identità ed è difficile orientarsi, oggi ancora di più.
La seconda domanda: volendo prendere in prestito i termini usati da Umberto Eco (che, mi auguro, mi perdonerà), chi sono secondo lei gli Apocalittici di un Commonwealth italico? E chi, invece, gli Integrati?
Partiamo dagli Integrati: sono quelli che sanno che questo processo di mescolanza, di glocalizzazione, non si può fermare; sono quelli che non hanno paura della varietà del mondo in cui si troveranno a vivere e che, anzi, vedono nella diversità una ricchezza che non ha eguali. Non hanno un’età specifica, non hanno un sesso preciso: hanno una mente aperta e nessuna paura di mettersi in gioco. Gli Apocalittici, al contrario, sono coloro che, per paura, decidono di chiudersi e di rinunciare a tutta la bellezza che la diversità porta con sé. Il ritorno del concetto di sovranismo, cui stiamo assistendo negli ultimi anni, deriva proprio da questo, dalla paura di non poter fermare il processo che la globalizzazione ha ormai avviato. Il futuro glocal, immaginato da Bassetti, è nelle mani di chi capirà che non le Nazioni e i loro confini, ma le comunità e quello che le tiene unite a livello di valori sono i vettori del domani.
A conclusione della nostra breve chiacchierata, è stato Niccolò a rivolgere a me una domanda: voleva sapere che cosa pensa davvero la mia generazione di tutto quello che accade. Gli ho risposto che non posso rispondere a nome di tutti ma che, sicuramente, ancora un po’ di speranza nel futuro ci è rimasta: che il Commonwealth italico possa essere un faro nella notte, una premessa di convivenza tra civiltà e persone che si riconoscono negli stessi valori, non può che fare bene al cuore. E allora viva gli italici che sanno di esserlo, quelli che ancora devono scoprirlo e, soprattutto, il soft power che, con gentilezza, li guiderà in questa presa di coscienza.