Foto del prof. Alessandro Spiridione Curuni scattate in quell’anno.
Il 1968 o meglio il “Sessantotto”, è stato un fenomeno sociale e culturale sviluppatosi in varie parti del mondo, nelle quali movimenti di massa spontanei, tra loro diversi, portarono studenti ed operai a fondersi in un unico messaggio di rivolta verso il conservatorismo di una società silente e sorda ai fermenti in atto. Al di là dei giudizi della storia, che vedono posizioni ancora oggi diverse, guardando all’esperienza italiana e romana in particolare, non possiamo non riferirci alle vicende che sfociarono nella cosiddetta battaglia di Valle Giulia (1 marzo 1968); gli scontri tra studenti e polizia interessarono la Facoltà di Architettura, la sua occupazione e il tentativo delle forze dell’ordine di liberarla; quegli eventi investirono anche il mondo della cultura: Pier Paolo Pasolini prese apertamente le difese della polizia sottolineando come quegli agenti della celere fossero anche essi figli del popolo e quindi non estranei ai fermenti di libertà e rinnovamento. Il dibattito durò a lungo e tutt’ora resta aperto.
Il contributo che qui viene raccontato, al di la delle motivazioni politico-ideologiche che sono alla base delle lotte studentesche, riguarda aspetti storici e culturali, sapientemente descritti dagli autori che ci restituiscono una pagina che ha lasciato segni importanti - primi fra tutti i graffiti di Guttuso - sulla facciata della Facoltà di architettura. La loro storia e il loro più recente restauro curato da uno dei testimoni dell’epoca, rimangono segni indelebili di quella stagione.
Pietro Graziani
A Valle Giulia nel mese di marzo del 1968, durante la perdurante occupazione della Facoltà di architettura da parte dei diversi gruppi, politicamente schierati, di studenti, si sono verificati diversi e significativi scontri. Fu proprio in quel periodo che la sede della facoltà di architettura, voluta da Gustavo Giovannoni e realizzata da Enrico Del Debbio, fu teatro di molteplici manifestazioni da parte degli occupanti. I diversi gruppi, politicamente caratterizzati dalla sinistra – di Sergio Petruccioli – e dalla destra – di Massimiliano Fuksas – si affrontavano provocando continue tensioni; da questi scontri sono nati vari gruppi studenteschi, il più importante dei quali fu quello denominato “movimento studentesco”.
Di certo, già da qualche anno prima, a Valle Giulia si respirava un clima di cambiamento all’interno della facoltà di architettura. La riforma del biennio rappresentava un momento in cui le diverse correnti di pensiero si trovavano unite nella formazione culturale degli studenti.
In un consiglio di facoltà del maggio del 1964, Bruno Zevi, allora professore ordinario, parla di un senso di rinnovamento della facoltà ove l’incontro con gli studenti rappresenta il motivo di un dialogo costruttivo e di scambio, nel panorama didattico di quegli anni.
Con voce ferma, Zevi diceva:
“Si è conclusa con l’approvazione con tre voti contrari, a larghissima maggioranza, di un punto di vista costruttivo della Scuola, cioè veramente ha segnato a mio modo di vedere la rottura in un periodo glorioso ma poi anche drammatico della Scuola, in cui vedendo che essa andava alla deriva, gli studenti dovevano cercare di salvarne il salvabile. Da ieri sera a mio modo di vedere, è cominciato un nuovo periodo della Scuola della facoltà di architettura di Roma. È il periodo in cui gli studenti non credono più che la situazione sia incorreggibile e creano un colloquio anche con il consiglio di facoltà e per questo si è deciso che il Consiglio di Facoltà si rivolgesse direttamente agli studenti di una certa posizione. E di questo hanno merito tutti quelli che hanno parlato, sia una parte che l’altra e siccome io dò merito specialmente alle minoranze, secondo me ha un notevole merito Mino Mini, il quale non ha ritenuto di portare a fondo la battaglia di opporsi al colloquio del giorno e ha chiarito un equivoco molto grave che si era verificato e cioè lo sfruttamento delle 500 firme dell’associazione indipendente Tarquini. Quando gli è stato chiesto quando era avvenuto il colloquio con il preside, egli ha parlato di un colloquio avvenuto parecchio tempo fa, nei giorni in cui si raccoglievano le firme. Bene, il colloquio a cui ci si riferiva era un colloquio avuto martedì scorso, cioè il giorno prima del consiglio di facoltà, dove un gruppo di persone – che non si sa chi siano e che non mi interessa affatto di saperlo perchè oramai è un fatto del tutto superato, quindi lo dico soltanto per lodare Mino Mini – si è recato con le firme, e a nome delle firme, dal preside minacciando addirittura, cosa che sarebbe grave se non forse ridicola, un’occupazione se non si fosse fatto questo e non si fosse fatto quello. Per essere ben precisi hanno fatto perfino dei nomi di professori completamente al di fuori dell’indirizzo dell’istituto di metodologia architettonica, cioè professori che non ne fanno parte. Questi due fatti – che non è vero che si sono verificati l’altro giorno in consiglio di facoltà e ieri sera e che hanno portato a questa posizione in cui si può costruire la scuola – ecco, questo è qualche cosa che secondo me ha fatto fare un passo enorme avanti a tutti noi e che impone dei problemi che io non avrei mai previsto.
Probabilmente può avere un’influenza, ecco perchè ci tengo particolarmente alla presenza di De Fiore, può comportare perfino alcuni cambiamenti in questo ultimo scorcio d’anno, perchè ci si deve preparare ad una nuova esperienza ormai approvata dall’una e dall’altra parte. Si è aperta questa nuova collaborazione per fare questo nuovo esperimento e quindi in vista di questo abbiamo ancora del tempo davanti. Abbiamo ancora tutto maggio, tutto giugno e forse qualcosa si può fare. Comunque i tempi si affrettanno e bisogna essere, diciamo, a livello di questi tempi.”
In un palcoscenico scientifico in evoluzione, Zevi già nel 1964 nelle sue parole preannuncia un senso di trasformazione legato in prima battuta alla riforma didattica che stava interessando la facoltà in quel momento specifico. Era viva l’idea di occupazione da parte degli studenti anche se in minor veduta; il sentimento politico all’interno della facoltà, animato da diverse correnti di pensiero, al contempo costituiva il riflesso di quel senso di ordine che si voleva dare alla Scuola.
L’intento delle distinte posizioni si riversava nel desiderio comune di una salda struttura delle attività didattiche di un sistema universitario icona di una notevole espressione culturale nel campo dell’architettura.
Il marzo del 1968 a Valle Giulia è il risultato di un processo di metamorfosi che già da tempo vedeva riuniti nomi importanti della didattica in consigli di facoltà, ove ognuno alla sua maniera custodiva con sè lo scopo di portare, in un assetto collettivo, innovazione nel campo formativo.
Valle Giulia è allora scenario di percosse, occupare la facoltà di Architettura era un obiettivo forte, era quello il luogo prescelto dagli studenti per tenere la loro assemblea. Circa 4000 studenti marceranno verso la facoltà, dove lo scontro con la polizia sarà duro. Una vera e propria battaglia.
Ancora oggi, traspare il valore di un momento storico particolarmente intenso, visto come testimonianza di un luogo in cui la conoscenza trova la sua identità espressiva attraverso idee e forme che ne hanno segnato il tempo e la visione.
La battaglia di Valle Giulia nei graffiti di Guttuso
Il risultato degli scontri avvenuti, non sempre verbali, fu il segno iconografico dei tanti segnali e simboli che ancora oggi rimangono, traccia indelebile, a costituire una prova del fermento rivoluzionario nell’edificio di Valle Giulia e il grande graffito voluto dagli “Uccelli”, che è stato eseguito sulla facciata d’ingresso della facoltà, spolverando sulla parete un cartone disegnato da Renato Guttuso, è certamente un capolavoro fra la molteplicità di scritte, incisioni e slogans arricchiti dalle più immaginarie e coloratissime estemporaneità, realizzati fin nelle parti più irraggiungibili dell’intero edificio di Del Debbio. La realizzazione effettiva del cartone di Renato Guttuso si deve a quel gruppo di studenti guidati da Paolo Ramundo che, per decorare la facoltà, usavano arrampicarsi fino a raggiungere altezze inusitate ed è per questo che erano detti: gli Uccelli.
L’idea di restaurare un’opera di così recente esecuzione come i graffiti fatti dagli Uccelli può apparire un po’ strana ma, durante i primi anni in cui Roberto Palumbo è stato preside della facoltà di architettura, nell’insieme delle iniziative da lui proposte per il riassetto dell’intero edificio, gli venne il desiderio di fissare alcune delle più significative tracce prodotte dal “movimento studentesco” scegliendo di conservare quelle che hanno reso indelebile il ricordo del 1968. Tutto ciò che è stato conservato rappresenta la citazione di una storia vissuta dalla città; una storia civile, sociale, politica vissuta con grande passione e con tanto entusiasmo1.
Certamente è quasi impossibile ricordare tutte le operazioni che sono state fatte per decidere quali delle memorie graffite sulle pareti della facoltà – nel cortile del fico e sulla facciata di ingresso – con quali criteri si dovesse intervenire per fissare indelebilmente tali ricordi. Non credo si possa riferire a tali operazioni intendendole come dei restauri eseguiti nel vero senso scientifico del termine. L’idea è nata improvvisamente, quasi in senso occasionale. Si stavano tinteggiando le facciate e tutto procedeva speditamente fino a che i pittori si sono trovati di fronte al problema di come comportarsi nei riguardi del grande graffito presente sulla facciata principale. In particolare l’impresa che curava i lavori, aveva già dovuto superare diversi problemi per integrare l’intera superficie con il tipico intonaco terranova, che Del Debbio aveva gia usato per gli edifici dell’allora Foro Mussolini, e stava per raggiungere la superficie incisa dal grande graffito.
Quali erano i problemi che si dovettero affrontare?
1) lo stato di conservazione della superficie graffita mostrava evidenti segni di deterioramento;
2) si sarebbe dovuta prestare la massima attenzione al fissaggio dello strato di intonaco che definiva l’immagine realizzata;
3) si dovevano individuare i più minuscoli segni dell’originale opera graffita cercando, in un secondo momento, di ravvivarli perché i trentaquattro anni che erano trascorsi, su di una superficie per nulla protetta, si stavano dissolvendo, rendendo irriconoscibile, il segno originale fatto dallo strumento utilizzato per l’incisione dello spesso strato di intonaco.
Con tali problemi da affrontare, ci venne l’idea di coinvolgere una restauratrice dell’ISCR con la quale facemmo un’accurata ricognizione dell’intera facciata. Vennero analizzate tutte le scritte: via la polizia, i simboli politici – falce e martello – ed altre decorazioni di vario tipo, spighe di grano, piuttosto ricorrente quale simbolo di abbondanza ed altro. Completata la ricognizione, la restauratrice produsse un’accurata relazione scientifica nella quale illustrò l’intera anamnesi della facciata e del modo con cui erano stati eseguiti i graffiti, allegando anche un dettagliato preventivo relativo ai tempi e al costo dell’intera operazione di restauro.
In quel periodo Roberto Palumbo era piuttosto in fermento perché desiderava che l’edificio venisse sistemato nel miglior modo e nel più breve tempo possibile, e pertanto chiese:
- Ma quanto tempo ci vorrà per fare il restauro secondo le regole canoniche proposte dalla restauratrice del Ministero?
Ella rispose che per l’esecuzione dei lavori, descritti nella relazione, sarebbero occorsi almeno sette o otto mesi e, inoltre l’intera operazione, secondo il preventivo, avrebbe avuto un prezzo piuttosto consistente perché, disse lei, restaurare questi graffiti – che oltretutto sono di una superficie non indifferente – secondo le consuete procedure che si applicano ad ogni opera d’Arte, antica o contemporanea, avrebbe comportato un notevole impegno di maestranze e di attenzione. Roberto Palumbo, di fronte alla restauratrice, annuì e chiese un po’ di tempo per decidere su quello che sarebbe stato più opportuno fare.
In assenza della restauratrice, Roberto si rivolse a me con la seguente domanda, quasi una invocazione/supplica espressa in perfetta espressione romanesca:
- Senti a Spiridiò’ me devi di’ che se po’ fa’? dopo domani viene il sindaco! Inauguriamo la Facoltà di architettura rimessa a posto; tu me devi trovà’ il sistema de fa’ qualche cosa! Devi assolutamente restaurare – disse proprio restaurare - questi graffiti!
Risposi:
- Ma che cosa posso materialmente fare io? E Roberto: tu! Me devi restaurare questa facciata con i graffiti!!
Messo con le spalle al muro da Palumbo, risposi facendogli la seguente proposta:
- Senti Roberto io non posso certamente restaurare, in così breve tempo, i nostri graffiti così come ci ha consigliato la restauratrice dell’ISCR, posso tentare di fare un’operazione molto semplice; posso fermare il pittore che sta dando la nuova tinta alla facciata, affiancarmi a lui e io stesso posso cercare, nel modo più accurato, di accostare la pittura alle incisioni facendo in modo che la stessa non invada imbrattando l’area del graffito.
- A Spiridiò! Fai quello che te pare! Ma è veramente importante che tu riesca a rinnovare e mettere in bella vista questo graffito!!! E sbrighete!!!
Ricevuto questo delicatissimo incarico e rafforzato – un po’ esaltato – dalla fiducia che Roberto Palumbo aveva riposto in me, mi sono immediatamente attivato; ho cominciato col fare fotografie, eseguire schizzi e quant’altro ritenevo necessario per la stesura di una sorta di progetto per il “restauro” dei graffiti ma, visto che con tutti questi preliminari stavo bruciando del tempo prezioso, presi la decisione di rivolgermi direttamente al capo dei pittori che si stavano occupando della facciata, chiedendogli se, in brevissimo tempo, mi potesse montare un trabattello delle dimensioni tali che permettesse di poter raggiungere la massima altezza del graffito e che, nello stesso tempo, permettesse un agevole spostamento per tutta la larghezza dell’opera graffita in modo da rendere più agevole il lavoro di accostamento della nuova tinta fino ai bordi del vecchio intonaco inciso dagli Uccelli. Montato il ponteggio dalle caratteristiche richieste, il capo dei pittori mi ha fornito i guanti di gomma e una spugnetta (vera) per eseguire il lavoro.
Visto da vicino, il graffito presentava evidenti fattori di criticità. Lo strato d’intonaco lasciato a vista dopo la graffiatura si presentava in uno stato di deterioramento tale che la perdita totale se non si fosse provveduto al suo consolidamento e fissaggio sarebbe stata imminente. Ecco quindi un nuovo e importante problema al quale avrei dovuto dare una sollecita risposta. Ho provveduto quindi alla ricognizione totale dei solchi del graffito e prima di ogni altro intervento ho dato la precedenza all’esecuzione delle opere di consolidamento. Durante questi lavori, sono stati individuati i segni dei chiodini – all’esterno della decorazione – per il fissaggio del cartone con il disegno di Guttuso (probabilmente trattato per il successivo spolvero del disegno); molti settori dell’intonaco, che nella foga della graffiatura erano stati ridotti decisamente di spessore; furono individuate tracce di colore, specialmente nei tralci di vite, ormai quasi del tutto sbiadite e tante altre problematicità per le quali, se non si fossero eseguite immediate azioni conservative, avremmo rischiato di perderlo definitivamente2.
Nel brevissimo tempo che rimaneva, sistemate con grande cura le operazioni di salvaguardia già descritte, munito di guanti di gomma, di una spugnetta e di un secchio di vernice, ho dato inizio alla parte finale di questo restauro. Man mano che procedevo con il lavoro finale – prestando la massima attenzione a non macchiare con il colore della facciata le parti bianche – a completamento dei consolidamenti e delle integrazioni si era provveduto ad una scialbatura biancastra dell’intera superficie del graffito la quale aveva anche la funzione di fissativo cercando, inoltre, di conservare, ravvivandole, le esigue tracce di colorazione.
Devo dire che fare questo lavoro mi ha particolarmente gratificato, perché ho avuto, in quell’occasione, l’opportunità di ripercorrere tutta l’opera fin nei più reconditi aspetti cercando e preoccupandomi che, a lavoro finito, non si fosse notata nessun segno del mio intervento. Ho cercato, nei limiti delle mie possibilità, di restituire a questo graffito, ormai simbolo della stessa facoltà, la freschezza e la spontaneità con la quale esso è stato realizzato.
Non si è trattato di un ripristino o di un restauro propriamente detto. Certamente, anche a distanza di qualche anno, sul graffito non appare nessuna stonatura rispetto all’originale; appare come eseguito oggi nella tinta della rinnovata facciata. Sulla base dei giudizi espressi da alcuni colleghi i quali, miei coetanei, avevano vissuto e partecipato ai movimenti del ’68 a Valle Giulia, posso affermare di essere riuscito ad ottenere un risultato piuttosto efficace.
Dare la pittura con la spugnetta, evitando l’uso del rullo, su quel tipo di intonaco ha permesso di riempire tutte le scabrosità di quella superficie restituendo all’intero graffito quella spontanea freschezza che deve aver avuto al tempo della sua realizzazione.
Questo non restauro così realizzato ci ha fatto guadagnare tempo per l’imminente giorno dell’inaugurazione. Oggi, a distanza di qualche anno, questo lavoro lo potremmo forse chiamare anche restauro perché, così intervenendo, abbiamo certamente rivalutato un’opera che è divenuta il logo, parte integrante e caratteristica della nostra Facoltà di Architettura.
Non posso fare altro che esprimere la mia più grande soddisfazione e anche la profonda emozione che ho provato durante la realizzazione di questo semplice intervento; soddisfazione e orgoglio che mi permettono di avere la sensazione di aver fatto qualche cosa, anche se minima, per la mia facoltà. In realtà, io non ho fatto nulla; non ricordiamo questa operazione come una grande opera di restauro da scrivere sui manuali ma, per la soddisfazione che ho provato, la considero semplicemente come la consapevolezza di aver potuto fare qualche piccola cosa per la mia facoltà; di aver potuto offrire un minimo contributo a questo edificio che mi ha visto crescere, prima come studente e quindi come appassionato delle funzioni che si svolgono in esso.
In conclusione possiamo dire che, nel graffito, vi è tutto lo spirito del ’68 a Valle Giulia.
Note:
1 Frasi riportate da un discorso fatto da Walter Veltroni, allora sindaco di Roma, il 26 di giugno del 2002 giorno dell’inaugurazione della Facoltà di architettura “Valle Giulia” quando da poco erano terminati i lavori di sistemazione, pulitura e innovazione. Tra le altre cose che ha detto Veltroni possiamo rammentare quanto egli ha detto a proposito del restauro dei Graffiti:.. viene un po’ male [pensare] che una cosa che è stata fatta da persone più o meno mie coetanee venga restaurata! Essendo stato ministro dei Beni Culturali, avendo restaurato….le opere di Tiepolo, la parola “restauro”, la parola restauro la abbino più …..invece abbiamo restaurato Paolo Ramundo e la cosa detta così appare abbastanza singolare e tuttavia è il segno che il tempo passa per tutti e le finzioni finiscono.
2 La parte interna del graffito viene in qualche modo stabilizzato con una soluzione di silicato di etile che serve a ostacolare lo sgretolamento dell’intonaco graffito (non protetto da vernice). Con questi interventi non ci illudiamo che l’opera si conservi per un lungo termine. Bisognerebbe, una volta completatele opere di restauro, programmare un piano di regolare manutenzione – almeno biennale – altrimenti l’acqua riprende il sopravvento.
(Territori della Cultura n.32)